Un manto medio-lungo dalla consistenza fine come la seta: ecco la caratteristica principale del gatto d’Angora, quella che l’ha reso celebre e per un certo periodo è stata anche causa del suo oblio.
Si narra che Maometto abbia preferito tagliare una manica della veste (o un lembo del mantello, a seconda delle versioni) pur di non disturbare il sonno del gatto che si era addormentato sull’abito che doveva indossare.
E che una volta, di ritorno dalla moschea, fu accolto dal micio con un inchino, segno di riconoscenza.
Pare che il profeta e fondatore dell’Islam amasse gli animali e in particolare avesse un debole per i gatti; per lui questi rappresentavano la “quintessenza degli animali”: ne ebbe parecchi ma più di tutti amò Muezza, una micia dal pelo lungo e rosso. Si tramanda che fosse di razza d’Angora.
Per definizione le leggende, anche se mai completamente attendibili, contengono sempre una qualche verità: in questo caso troviamo conferma del fatto che le origini del gatto d’Angora siano antiche
Qualcuno ha formulato l’iptesi che questa razza derivi dal gatto di Pallas (Otrocolobus manul), anche conosciuto come gatto delle steppe, predatore selvatico notturno di piccola taglia diffuso in Asia centrale (Cina e Mongolia).
La cosa sembra tuttavia improbabile, considerato che le differenze tra le specie superano le analogie, senza contare che il gatto di Pallas non è incline ad accoppiarsi con i felini domestici.
É assai più credibile che il gatto d’Angora, come la maggior parte dei suoi simili, discenda dal gatto selvatico africano (Felis silvestris lybica), conosciuto anche come gatto del deserto.
DALLA TURCHIA, CARI COME GIOIELLI
Angora è il vecchio nome della città di Ankara (il nuovo toponimo fu utilizzato dopo il 1930), capitale della Turchia situata sull’altopiano dell’Anatolia, una regione geografica che nel mondo antico era nota come Asia Minore.
Il luogo è conosciuto dagli amanti degli animali perché da qui provengono il coniglio d’Angora e le capre d’Angora, oltre al gatto d’Angora. Vero è che felini domestici a pelo lungo furono importati in Francia e in Gran Bretagna dalla Turchia già a partire dal tardo XVI secolo.
La presenza del gatto d’Angora in Europa è data per certa intorno al 1500 e si pensa che sia sbarcato oltreoceano, in America, nella seconda metà del 700.
Rileggendo le cronache passate, scopriamo che questa razza era piuttosto ambita sul finire del XIX secolo: nel 1890, durante un’esibizione felina a Londra, fu addirittura rifiutata un’offerta di 5000 sterline da parte di un proprietario per nulla disposto a cedere il proprio esemplare d’Angora.
Presto, tuttavia, il Persiano surclassò l’Angora quanto a popolarità in Europa e quest’ultimo fu impiegato principalmente nei programmi di allevamento del Persiano, per ottenere una pelliccia lunga e setosa.
NON SOLO BIANCHI
Per lungo tempo il gatto d’Angora per antonomasia è stato quello bianco con occhi blu o ambrati. Poi hanno guadagnato un crescente apprezzamento anche altre colorazioni spaziando tra tutte le tonalità e i pattern possibili.
Il manto è morbido, setoso, ricco di riflessi accentuati dai movimenti della pelliccia; a singolo strato, senza sottopelo, di lunghezza variabile: coda e gorgiera sono in genere caratterizzate da maggiore lunghezza, densità e lucentezza.
Nel complesso, l’aspetto è elegante e il corpo bilanciato, sorretto da un’ossatura leggera e muscoli tonici, dalla forma allungata. Di media taglia, il peso va dai 3 ai 5 kg tenendo conto che gli esemplari maschi sono generalmente un po’ più robusti delle femmine.
Le zampe sono slanciate, più lunghe quelle posteriori di quelle anteriori, e terminano con piedi ben torniti, piccoli e delicati. Gli occhi larghi dal taglio a mandorla contrastano con le dimensioni medio-piccole della testa, comunque proporzionata al resto del corpo.
Le orecchie sono anch’esse larghe, soprattutto all’attaccatura, a punta, e sono in posizione verticale ed eretta, non troppo distanti tra loro. La coda è lunga, spessa alla base e va assottigliandosi verso la fine, dove il pelo è più folto e lungo.
Fonte: estratto da un bel servizio di Tito Parrello, tratto da L’Arca di Noè, aprile 2020
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